IL RUOLO DELL’IMMAGINE NELL’ERA DIGITALE: CONVERSAZIONE CON EDWARD ROZZO di Valentina Marchioni

IL RUOLO DELL’IMMAGINE NELL’ERA DIGITALE: CONVERSAZIONE CON EDWARD ROZZO
di Valentina Marchioni
Per capire il ruolo dell’immagine nelle società contemporanea basta aprirsi ai mutamenti in atto. Una sfida affascinante e (forse) non impossibile. La formula? Coraggio, incoscienza e determinazione per cambiare se stessi e occhi ben aperti per vedere ciò che ci succede attorno e assumersi il rischio di sbagliare…
Siamo in compagnia di Edward Rozzo, tra i più raffinati corporare image photographer contemporanei, oggi diviso tra l’attività didattica -che svolge all’Università Bocconi di Milano dove è Teaching Fellow- e la produzione di video corporate prettamente per aziende medie e piccole.
Americano di nascita, italiano di origine e per scelta. Cresciuto artisticamente alla Rhode Island School of Design, sotto la guida di Harry Callahan, nel 1970 si trasferisce definitivamente a Milano. Lo incontro in un caldo pomeriggio del giugno Milanese. Mi apre le porte della sua casa: un ampio spazio sviluppato in verticale. Ci arrapinchiamo per quattro piani, attraversando stanze traboccanti di ricordi, oggetti, immagini e ninnoli vari. L’ambiente è caotico ma elegante. Distinto, come il suo padrone di casa. Saliamo e saliamo ancora. Infilando un piano dentro l’altro. A me sembra d’aver scalato una montagna, ma nemmeno sulla vetta di questo bel palazzo, in un pittoresco e retrò terrazzo fronte campi riusciamo a sfuggire all’asfissiante afa di Milano..
Riprendo fiato e gli chiedo subito cosa ne pensa dell’identità nell’iconografia contemporanea… “Identità” ripete lui ispirato, facendo volteggiare il termine nella bocca come fosse un vino pregiato.“Per trovare la propria identità (nella fotografia, ndr) non bisogna esaltare un  mainstream iconografico ma dar voce ai mutamenti tecnologici che hanno cambiato e stanno cambiando la percezione del mezzo (fotografico ma non solo, ndr) e l’utilizzo dello stesso. Quando ho iniziato a fare fotografia io, dovevi saper usare i colori. C’era una tecnica particolare e io ne avevo semplicemente una (apprezzata, dice distrattamente, anche da Time Life da cui ricevette una proposta di assunzione, ndr) che avevo imparato
acquistando un libretto (sorride) del valore di 3 dollari che ho comprato quando avevo tredici anni… La capacità di manipolare il colore era una necessità per il tipo di lavoro che svolgevo (Edwar è stato per anni corporate image photographer per le più prestigiose aziende italiane e del mondo, tra le quali FIAT, Ferrari, Roche e molte altre ndr). Le fabbriche sono brutte e sporche. E dovevi inventarti qualcosa, far risaltare i colori, esasperarli se vuoi… Ricordo che giravo sempre con una valigetta con due termocolorimetri, 230 filtri in gelatina di tutti i tipi…
E adesso? Con l’avvento del digitale?
Ho buttato via tutto. Adesso tutto quello che si sapeva non serve più. Già nell”89, ’90, ’91 quando ero all’Istituto Europeo (Rozzo è stato Direttore del Dipartimento di Fotografia dell’Istituto Europeo di Design ndr), dicevo ai ragazzi che tutto quello che stavo insegnando loro sarebbe stato inutile con l’avvento del digitale.
Perchè? Come il digitale ha cambiato la fotografia e dove si applica la tecnica in questo nuovo modo discattare?
Ecco, la tecnica tradizionale è ovviamente superata. Mettere a fuoco, esporre, equilibrare le luci, i bianchi…. Ormai questo è tutto automatizzato, il che vuol dire che chiunque può fare quello che un tempo richiedeva professionalità.
Una sorta di democratizzazione della fotografia?
No, questo è semplicemente il progresso tecnologico.
Questa è la storia dell’uomo e del progresso che porta in sé la semplificazione dei processi… è un fatto storico… Io sono nato in un’epoca in cui per svolgere quello che volevo fare, dovevo imparare a farlo in una determinata maniera. Ma oggi… Quegli strumenti non servono più. Basta. Questo però non è un problema ma un dato di fatto. Nascondersi nell’elogio del passato è inutile e controproducente a mio avviso.
Diffido da quelli che non accettano il progresso o sono nostalgici nei confronti delle cose.
Prima dell’invenzione del carro si andava a piedi, prima della macchina da scrivere c’erano gli scribani…
L’uomo – da sempre- insegue i cambiamenti e saperli sfruttare è un bene.
E come questi cambiamenti mutano il gusto del fotografare e del percepire la fotografia?
Ah, totalmente. Come in tutti i cambiamenti tecnologici: cambia l’uso che si fa dei media… cambia la percezione del mezzo stesso. Ad esempio, come dicevo prima, l’avvento della tipografia mobile ha permesso che autori come Flaubert scrivessero i loro romanzi. Probabilmente Flaubert non avrebbe saputo decorare minuziosamente un manoscritto, ma non avrebbe
scritto i suoi romanzi se non ci fosse stato questo cambiamento tecnologico. I cambiamenti tecnologici inevitabilmente cambiano la percezione e l’uso del mezzo stesso. È un dato di fatto. Se la cosidetta cultura si arrocca sulle idee del passato, costuendoci su, oltre ad essere conservatore denota cecità.
Si riferisce all’autoreferenzialità di cui parla spesso in merito al caso “Italia”?
No, l’autoreferenzialità italiana è qualcosa di diverso da quello di cui sto parlando ora.
Arroccarsi sulle idee del passato è un’attitudine che purtroppo valica i confini nazionali. Parlo di un uso e un apprezzamento museale della fotografia. L’Italia – paese che io amo (profondamente aggiungerei, al punto da rinunciare ad una posizione a TimeLife per continuare a vivere, lavorare e poter gustare le meraviglie nostrane, ndr)- purtroppo si tira spesso la zappa sui piedi…La sua cultura (italiana, ndr) è molto legata all’appartenenza, alla conoscenza, alla corte…
L’Italia è piena di gente brillante che non viene riconosciuta perchè chi guarda, chi giudica non ha strumenti per riconoscerne la vitalità, ma usa dei template talmente formali e prestabiliti, che tutto quello che esce fuori da questi schemi non viene apprezzato e compreso.
Non va ovviamente dimenticato che l’Italia, nonostante tutti questi difetti, è ancora una delle mete più interessanti del mondo. Credo che uno dei nodi sia la paura che gli italiani hanno di rinunciare alla raffinatezza che li contraddistingue. Mi imbatto spesso in persone che preferiscono rimanere nel loro recinto di certezze per non sbagliare. Ma la paura di sbagliare rende l’uomo poco lungimirante e senza la capacità di guardare avanti non c’è progresso. Modernità vuol dire flessibilità, individuazione di competenza e di innovazione. Gli italiani hanno davvero troppa paura di sbagliare…Conosci John Szarkowski?” (http://www.theguardian.com/artanddesign/2010/jul/20/john-szarkowski-photography-moma) mi chiede,
movimentando l’ordine dei ruoli nella nostra discussione.
“Szarkowski” riprende “è stata una delle figura centrali della fotografia del XX secolo (John Szarkowski, fotografo, critico, curatore e direttore della fotografia del Museum of Modern Art di New York dal 1962 al
1991, ndr)”.
Uno che ha rotto con il passato…
Esatto. John Szarkowski subentrò al MOMA dopo Edward Steichen (http://en.wikipedia.org/wiki/The_Family_of_Man) e capì subito che ciò che lo attendeva era molto di più di un semplice cambio di testimone. Edward Steichen, con la sua mostra Family of Man nel 1955, aveva fatto storia. Come Dante aveva chiuso un epoca, così Steiche aveva celebrato il rapporto
universale della fotografia con le arti, creando una narrativa, una poetica. La famiglia dell’uomo è una famiglia unica, un pò romantica. È un’idea che non tiene in conto i cambiamenti in atto ma che chiude un’epoca. Così Szarkowski, dovette -inconsapevolmente ma con grande intuitoconfrontarsi con questo ciclo e così capì che era ora di cambiare la percezione della fotografia. Szarkowski fece una cosa semplice e straordinaria allo stesso tempo. Si guardò attorno, ovunque, alla ricerca di quello che c’era. Guardò a 360° e scoprì – nel sottofondo di cambiamenti epocali – un archivio fatto da un bambino che avava fotografato dai 9 ai 12 anni. Erano fotografie straordinarie, irriverenti e istintive. L’uomo che quel bamino era diventato non era così straordinario come i suoi scatti infantili. Ma poco importava…”
Parla del casuale talento di Jeacque Lartigue (http://www.atgetphotography.com/The-Photographers/Jacques-Henri-Lartigue.html), giovane esponente della borghesia francese di inizi novecento, inconsapevole testimone della straordinaria ricchezza della sua famiglia e di un epoca ad essa legata, quella della grande borghesia, immortalata in tutta la sua naturalezza nell’obbiettivo spontaneo, irriverente e indubbiamente talentuoso di questo giovane “fotografo”.
 Del tutto istintivo direi. Ma oggi è ancora così?
Beh, sono molto lontani i tempi di Steichen e Szarkowski, ed è impensabile oggi di ritenere validi i parametri di Szarkowski quali elementi distintivi del linguaggio fotografico. L’uso e la produzione dell’immagine sono diversi e questo perchè tutto attorno è cambiato: la sociologia, la politica, l’economia, il mondo.
Che influenza ha il digitale su questo cambiamento e quanto questo progresso tecnologico influenza la fotografia. Incalzo la domanda, preoccupata che il discorso prenda traiettorie più condizionate dalla sua abile retorica che dalla mia volontà. E difatti, esordisce con una risposta solo apparentemente distante dal punto.
“Non parlo molto bene (sa di mentire, ndr) ma ho capito molte cose. Una di queste è che non si può avere il grande senza far prosperare il piccolo. Serve flessibilità nella competenza e innovazione. Viviamo in un’epoca che definisco Neorinascimento. Ma non in termini romantici. Oggi, stanno cadendo tutti i sistemi che hanno sostenuto economicamente, psicologicamente, socialmente, la nostra società. Come la definisce Zygmunt Bauman la nostra è una “modernità liquida” una società che non ha forma e che cambia di secondo in secondo e che fa ricadere sugli individui il compito di vedere, di essere capita (la società, ndr). Siamo noi oggi a dover intuire dove si sta andando.
Questo applicato alla digitalizzazione…
La digitalizzazione ha creato enorme caos (una parola che il mio interlocutore ama particolarmente, ndr) perchè tutti possono fare cose che un tempo richiedevano abilità tecniche e che alcuni traducevano in abilità artistiche… Mi fanno ridere i cosidetti fotografi autoreferenziali che si lamentano o criticano gli scatti su Instagram. I cosidetti “professionisti” si inalberano per arroganza e sopratutto per miopia, arroccandosi sulle proprie opinini e momento storico, inteso come recinto. Bisogna considerare l’insieme, guardare al tutto, ma non è cosa semplice…
Popdam è una rivista di Moda. Cosa ne pensa della fotografia di moda?
Quello della moda è un terreno che mi affascina molto e su cui si potrebbe costruire. Insegnando semiotica visiva parlo spesso di moda. La moda è profondamente legata al concetto Baumaniano di società liquida. La moda è l’elemento chiave e direi quasi animalesco per la definizione e la rappresentazione del sé. La libertà e la varietà di scelta insita nella moda è ciò che permette alle persone di determinare la propria identità psicologica e di genere. Aspetto quest’ultimo molto importante, soprattutto nello scivolamento continuo tra maschile e femminile da cui i giovani sono attratti e i cui confini sono molto sottili.
Se dovessi fare un corso di fotografia di moda oggi farei un corso di sociologia.
Molti non sanno cogliere conflitti e perni sui quali si narra il momento. E la stessa cosa si può dire per gli stilisti. Ad esempio, io ho una grande ammirazione per Miuccia Prada. Ecco la Prada non confeziona solo vestiti. Il suo interesse è proiettato verso la donna e la sua rappresentazione e questa sua grande capacità, sensibilità è la chiave del successo.Il problema che spesso noto nei forografi di moda è la mancanza di una visione ampia della società. La fotografia di moda è banale quando racconta solo i vestiti. Capisci?
I fotografi che emergono sono fotografi, come Martin Parr, che per varie ragioni colgono le contraddizioni, le ironie visive, i contrasti che stimolano emozioni e fanno riflettere…
Fotografia d’autore…
No, no… Non credo nella fotografia d’autore. Una simile definizione della fotografia è un’esigenza sintattica
tipicamente italiana. Simili categorie favoriscono strane forme di autocompiacimento, auto valorizzazione del proprio lavoro attraverso l’uso dell’appellativo “d’autore” … Io penso che esistano i fotografi. Punto. Come ho già detto i migliori sono quelli che sanno essere in totale sintonia con il momento e che sono dotati di quella capacità di coglierne contraddizioni e tipicità. I fotografi non sono delle star. La mia esperienza alla Rhode Island school of Design mi ha insegnato proprio questo. Io ho preso parte ad un percorso storicamente legato al Bauhaus e posso dire che Harry Callahan,
(celebre fotografo e suo professore alla Rhode Island school of Design, ndr) era un uomo della strada, un uomo semplice, così come Aaron Siskind (http://www.aaronsiskind.org/images.html), che sembrava un venditore di giornale. Autori di quel calibro non hanno pensiero ma visione. Ed è quello che serve: visione, occhi, idee..
Ed è questo il consiglio che sente di dare a un giovane fotografo?
Ai giovani, siano fotografi ma anche ai miei studenti alla Bocconi mi sento di dire: imparate a guardare.
Guardare con i vostri occhi tutto, seguendo l’istitnto e non abbiate paura di sbagliare!
Ascolto rapita le parole e i lunghi ragionamenti di quest’uomo un po’ arrogante (per sua stessa ammissione)
ma umile allo stesso tempo (“i fotografi non sono delle star”). Guardo l’orologio. Mi accorgo che la nostra
chiaccherata ha rasentato le due ore. Un tempo infinito per la maggior parte delle interviste. Un tempo
trascorso più che piacevolmente in sua compagnia. Penso allora a quanto sia raro e stimolante imbattersi in
una persona nella quale queste caratteristiche -arroganza ed umiltà – (la prima, ahimè più frequente della
seconda nella maggior parte degli individui) convivono in un armonico equilibrio, senza che una prenda il
sopravvento sull’altra. Espressione di un percorso interiore molto profondo e tumultuoso, che riconsegna
l’immagine di un uomo che ha saputo svestirsi delle sue paure e dar voce al proprio talento in una società
dai contorni sempre più indefiniti