A colloquio con Giovanni Gastel, l’ultimo dei gentiluomini di Valentina Maria Marchioni

Un uomo asciutto e slanciato entra nella stanza da una porta nascosta da un’enorme libreria a tutta parete, gremita di pregiati volumi. Incede con eleganza e senza fretta. Lo guardo avanzare, è perfettamente a proprio agio negli ampi spazi di questo raffinato studio – rifugio – laboratorio milanese in zona Tortona.
D’improvviso allarga le braccia e, come fosse da solo al centro di un proscenio, declama con tono trionfale “Eccomi a voi, donne”.
Lo guardo, tra l’irritato e lo stupito. Abbozzo un sorriso e inarco leggermente il sopracciglio. Lui rimane impassibile, allontana la sedia dall’ampio tavolo finemente intarsiato stile decò e, sollevando il lembo dei pantaloni chiari, si accomoda. Comincia così la conversazione con Giovanni Gastel.
L’esordio del nostro incontro mi lascia un po’ spiazzata, ma non ci metto molto a realizzare che la persona che mi trovo di fronte non è in realtà uno spiritoso e spavaldo fotografo di moda. La maschera, finzione scenica dell’artista restio a manifestare la sua vera natura al primo momento, cade subito. Scopro presto che dietro all’apparenza d’altero professionista del lusso, compiaciuto e distratto da tutto, attratto dalla superficie delle cose, c’è ben altro. La grazia dell’animo di Gastel si palesa dapprima nelle sue movenze raffinate e nella voce dai toni gentili (seppur intervallata, all’occorrenza, da un confidenziale e molto alto borghese turpiloquio, come d’altronde tradizioni vuole) che ne mettono in evidenza gli aristocratici natali.
Ma è poi l’incontro con l’uomo a rivelarne la vera natura. Giovanni Gastel è un gentiluomo dal forte senso d’appartenenza all’alto rango, animato da una sublime idea della donna, filtrata dal suo occhio attraverso una lente di sensualità ed eleganza più tipica di altri tempi che della contemporaneità. La donna per Gastel è una regina dell’ eros velato, concetto diametralmente opposto alla volgarità; la sua è una dama del decoro e dell’eleganza (parola, quest’ultima, che rientra a pieno titolo nel vocabolario gasteliano), rispettosa di se stessa e della sua immagine del vivere sociale.  Ascoltandolo parlare e guardandolo in viso attentamente, l’idea è quella di un uomo dalla personalità complessa e garbata, dallo sguardo lontano ma non assente. Prestato alla moda più che nato per essa. Per quanto appaia soddisfatto (e come potrebbe non esserlo) dei  propri traguardi professionali, Gastel non è mai del tutto appagato del suo lavoro. Geloso custode della propria coscienza, sembra un fragile abituato a fare il forte. E’ un uomo dalla forte sensibilità artistica e poetica, da tempo infatuato della parola e dei versi, che scrive e recita fin da giovanissima età. Curioso verso un mondo che, per sua stessa ammissione, dice di non capire molto, ma che accetta con filosofico distacco, guardandolo di lontano, più spettatore che protagonista.
Come tutti i membri di una certa borghesia italiana (Giovanni è figlio di Ida Pace Visconti di Modrone, sorella del celebre Luchino regista, nipote di Carla Erba, figlia del fondatore dell’omonima casa farmaceutica, la più antica d’Italia) ama parlare della sua famiglia e dell’influenza che questa ha avuto nella sua formazione e nella vita adulta. Famiglia che lo ha inquadrato fin da giovane in determinati ruoli, verso cui nutre un forte senso di responsabilità che sembra accompagnarlo sempre, lasciandolo libero, forse, solo nel momento in cui si trova dietro un obiettivo.

In che rapporto sei con il presente?

Lo capisco poco. Ma sono dell’opinione Voltaireana che “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Non ho niente contro il mondo attuale. Ha ragione di esistere, anche se io non ne capisco del tutto le logiche. Non mi reputo un nostalgico di altre epoche.
Sono però il settimo figlio di genitori piuttosto maturi che mi hanno allevato per un mondo che poi non ho trovato. Ma va bene così, perché questo mi ha spinto a chiudermi in un posto e reinventarmi uno spazio che fosse solo mio.

Un modo piuttosto introspettivo di vivere un lavoro – quello del fotografo di moda- che invece si nutre delle scintille del jet set modaiolo

Credo che i due aspetti possano in qualche modo equilibrarsi e convivere.
Sinceramente poi non mi piace ragionare per categorie. Una volta Germano Celant (celebre curatore, critico d’arte e teorizzatore del concetto di arte povera,  amico personale di Gastel, per il quale ha anche curato diverse mostre, ndr) una volta mi disse: “Giovanni, dovresti smetterla di definirti come fotografo di. Tu sei un fotografo. Punto. Poi sta a te fotografare quello che vuoi”.
Ebbene questa frase, per quanto in effetti sembri piuttosto scontata, mi fece molto riflettere e arrivai alla conclusione che aveva ragione. Io sono un fotografo, ovvero uso la fotografia come linguaggio e poi dirigo l’obiettivo dove voglio. Ammetto che questa considerazione mi ha aperto a moltissime possibilità. Recentemente, ad esempio, ho realizzato un reportage sulle eccellenze italiane. Il reportage certo non è il mio terreno ma credo sia bello potersi misurarsi con altri ambiti.

Un vero esploratore. E non solo di generi fotografici, ma anche dell’interiorità dell’animo umano. So che subisci un particolare fascino per il concetto di “dolore”.
Cosa ti affascina così tanto in questo sentimento così intimo e spesso tabù?

Il dolore è un sentimento altissimo. Tuttavia, oggi viene spesso trattato in maniera trash, con un linguaggio basso, crudo, un po’ pulp. Non riuscendo a comprenderne il motivo di questo approccio, ho cercato di ritornare a parlare del dolore -che è un sentimento che ci pervade tutti- con un linguaggio più alto, seguendo un po’ quella che è la tradizione della storia della pittura.

Il progetto “maschere e spettri” è un po’ la sintesi di questo concetto. La rappresentazione della trasfigurazione della bellezza. Donne bellissime che diventano fantasmi 

Devo dire che la nascita della fotografia moderna e la possibilità di evolvere l’immagine dopo lo scatto all’infinito, mi hanno fortemente ispirato. Credo sia corretto dire che ho usato “maschere e spettri” per impossessarmi di questo nuovo sistema che ha cambiato e dato origine alla nuova fotografia.

Volevo uscire dall’ambito dell’elegante. Cercavo un argomento universale con cui misurarmi e il dolore è uno dei temi più trasversali dell’universo. E’ un sentimento santificante, non è solo negativo ma ha anche una sua positività. Ho cominciato misurandomi su questo pensiero. Ho iniziato facendo una prima serie di trasformazioni della stessa foto. La distanza tra le foto andate in mostra e lo scatto originale è siderale. Poi volevo fare una mostra che fosse istituzionale perché come dice Germano (Celant, ndr), bisogna mostrarsi quando c’è qualcosa da mostrare.
Le mostre istituzionali che non hanno scopo di vendita si fanno quando c’è qualcosa di nuovo da mostrare e maschere e spettri era una cosa nuova.

Parliamo dell’immagine. Qual è il suo ruolo oggi?

Totale. L’immagine ha vinto sulla parola, su tutto. L’immagine oggi è diventata quello che forse avrebbe dovuto essere fin dall’inizio: un linguaggio universale senza barriere e io sono molto felice che non si sia mai fotografato tanto quanto oggi. Ormai ci scambiamo immagini senza alcun commento scritto.

E quanto analogico rimane nell’era del digitale? 

Credo ce ne sia un’enorme parte. Trovo sia ancora necessario usare tutti gli strumenti al massimo.

Diaframma, sdoppiature. Quello che è cambiato sono le tempistiche delle scelte. Prima, le decisioni venivano prese a monte. Decidevi in precedenza la sensibilità della pellicola, la grana, gli effetti e poi scattavi. La fotografia era il risultato finale. Adesso lo scatto, anche se è fatto bene, dà origine a una base su cui iniziare il lavoro di post produzione che non è un lavoro di ritocco ma di enorme potenza creativa che può cambiare completamente il significato ad una foto.

Quindi, se ogni tecnologia è foriera di una semplificazione del processo…

Alt. Assolutamente no!!!  Secondo i principi della termodinamica, la materia tende al disordine, noi compresi. Tutte le volte che cerchi di organizzare il disordine, crei più confusione di prima.
Quindi in realtà ogni tentativo di semplificare crea solo più caos.
Il digitale ha creato un’enorme disordine nella fotografia. Ha complicato le cose. Soprattutto nella quantità di foto scattate. Disordine e complessità. Lasciamo poi stare il problema dell’archiviazione… se vedi il mio archivio analogico è ordinatissimo. Quando guardo quello digitale invece ci sono foto ovunque. E’ decisamente caotico…

Sì, ma scattare oggi è più facile. Esiste un’indiscussa pluralità di voci. Tutti scattano. Secondo te questo è un aspetto della democratizzazione della fotografia o un impoverimento della tecnica.

Scattare una buona fotografia è facile. Scattare una bella fotografia è molto più difficile. Per fare foto del secondo tipo -belle- serve sapere elaborare l’immagine. Bisogna possedere completamente la tecnica perché è imprescindibile. Saper elaborare una fotografia è la base. Impadronirsi degli strumenti come Photoshop è molto difficile e altrettanto importante.
Anche io ho dovuto imparare ad usarlo. Per fare una grande fotografia ci vuole il dominio di questi strumenti. Le macchine contengono un’estetica e bisogna imparare a scovare i limiti del sistema che si usa. Certo, scoprire i limiti di Photoshop non è così facile dal momento che è in continua evoluzione. Quindi per tutto il mondo è vero che è diventato più facile scattare una buona base.
Ma fare una grandissima fotografia è diventato più difficile perché serve appunto un sistema di conoscenza in continua evoluzione.  Photoshop non facilita la vita del fotografo ma la complica!

Come questi cambiamenti hanno influito sull’estetica

Non credo che il gusto sia variato, dal momento che è una cosa personale. La macchina ti porta ovunque, sta a te dominarla. L’opera dev’essere leggera. Quando tu la percepisci non devi sentire la fatica. Quando vedi una grande fotografia questa dovrebbe essere percepita come una cosa facile, impalpabile. Dovrebbe avere la leggerezza degli dei.

Quali sono i fotografi che oggi ti affascinano di più.

Ce ne sono tanti e sono numerose le cose che mi piacciono, così come sono tante quelle che non mi piacciono. Mia madre comprava riviste di moda e io ho cominciato ad amare la grande fotografia attraverso quei giornali: c’erano foto di Penn, Avedon. Diciamo che sono legato a quel modo di vedere la donna.

E quali i contemporanei che ti suscitano emozioni?

Tante cose di tanti autori che stimo molto.
Alcune cose di Settimio Benedusi– un po’ fuori dal suo lavoro professionale, mi piacciono molto.
Un gruppo di amici, giovani fotografi. Mi piacciono le sperimentazioni.

Quale pensi sia il rapporto della fotografia con le arti contemporanee…

Credo ci sia un’enorme utilizzo della fotografia nell’arte contemporanea. Se guardi tutto l’iter delle arti figurative contemporanee, la fotografia ha una grande influenza sull’arte. La fotografia è potentemente entrata nella storia dell’arte contemporanea e le influenze sono reciproche.  Fenomeni come l’iperrealismo che ha imposto alla pittura la riproduzione della fotografia, sono interessantissimi. Gli iperrealisti hanno cercato di riprodurre la fotografia con specifiche tecniche fotografiche. Nella fotografia il fuori fuoco è un concetto negativo. E gli iperrealisti hanno cominciato a riprodurlo.
Chuck Close è un autore che faceva polaroid di facce e poi divideva queste enormi fotografie a reticolo dipingendo solo punto chiaro e scuro senza percepire cosa stava dipingendo. Questa tecnica ha segnato un ritorno a calligrafare la fotografia su grandi dimensioni. Close è sicuramente uno degli artisti più interessanti.
Enorme commistione tra arte contemporanea e fotografia esiste anche nella fotografia di moda, i cui autori tutto sommato sono sempre stati visti ingiustamente come i cugini ricchi e cretini della fotografia. Ma ormai anche noi (fotografi di moda) siamo presenti nei musei.

Cosa ne pensi delle altre forme di fotografia
Non credo ci sia molta differenza. Ci sono belle fotografie che superano il tempo e fotografie che restano nel tempo. Sono più gli altri a percepire una certa differenza, una separazione. Quando poi hanno iniziato a conoscerci hanno cambiato idea.

Eleganza ed equilibrio sono due belle parole ricorrenti nel tuo vocabolario. Come sei riuscito ad adattare questa tua indole in un mondo che spinge in altre direzioni?

Quando hai 20 anni sei trendy. Perché la tua generazione (quella nuova) porta sempre un’estetica fresca, diversa. Quando ne hai 30 devi scegliere. O insegui il trend -e non dò un giudizio morale in questo- o cerchi di diventare un autore. Dov’è la differenza?
Nel mantenersi saldi al proprio universo creativo e filtrare tutti gli impulsi che derivano dalla società che cambia e introdurli all’interno del proprio mondo.

Per me l’eleganza è un valore di ordine morale e non solo estetico. Non è solo la giacchetta bella. Ma è anche il rispetto delle regole. Io prima di tutto sono un gentiluomo. A me hanno insegnato questo. E di conseguenza la mia vita -come quella di tutti- non appartiene solo a me. Ma è anche un simbolo ed ha un significato.
L’eleganza la cerco in tutto quello che entra nel mio mondo. Le cose hanno sempre un piano di lettura elegante.

Certo però che farla emergere in un mondo che si è involgarito molto è particolarmente difficile.

Credimi non poi così tanto. La cosa che mi stupisce sempre è sapere che ci sia ancora molta richiesta e c’è una nicchia di persone che ama quello che faccio. Per me è naturale cercare l’eleganza. Questo sono io. E questo è quello che faccio. Io non penso “devo essere elegante”. Nella mia vita ammetto di aver avuto infiniti privilegi che sicuramente mi hanno condizionato.

E pensi che l’eleganza sopravviverà?

Mi auguro che alla lunga non solo sopravviva ma vinca. Lo stile è un modo di vedere tutto. E ti assicuro che piace.
Recentemente ho fatto un numero di Glamour dove non si vede un seno, le gambe sono chiuse. E ha avuto un gradimento molto alto. Mi conforta vedere che ci sia una nicchia crescente di persone che apprezza questo stile.
FaceBook mi piace perché mi ha dato la misura di essere apprezzato oltre gli addetti ai lavori. Vedo che per esempio quando posto foto di donne dove non si vede niente ricevo commenti tipo: sensuale, bello.
Insomma mi conforta pensare che si possa essere rispettosi nei confronti delle donne e scattare foto sensuali.
L’eleganza è molto più sexy della volgarità. Molto più del nudo.

Qual è il tuo lavoro che hai amato di più?

Quello di domani ovviamente. Il successo è una bestia brutta. Può farti diventare uno stronzo in cinque minuti. Fin da ragazzo, (ovvero fin da quando avevo molti dubbi sulla riuscita della mia carriera) ho sempre detto agli amici: se mai dovessi cambiare un millimetro, fatemelo sapere. Non me l’hanno ancora detto.
Quello che ho fatto non certifica niente. Quello che farò è aleatorio. Quello che conta è che io ho solo oggi… che è l’unico momento che ho per dimostrare quello che so fare. Ho circa14 famiglie sulle spalle (quelle delle persone che lavorano con me) ma ti assicuro che mi preoccupo poco se mi pagano o meno. Il momento in cui decido di prendere un lavoro, devo farlo al meglio perché ho scelto di farlo.

Nella tua vita sei stato oltre che fotografo, tennista, scrittore, insomma… (domanda banale) quale altro lavoro avresti fatto se non fossi diventato un fotografo di successo
Penso che avrei potuto fare qualsiasi lavoro in ambito creativo

Categorie: dinamico o statico

Liberi tutti.

Analogico o digitale?

L’analogico non è da buttare via. Io ho lavorato a Bangkok per Polaroid che rappresentava un linguaggio che oggi non c’è più. E se non c’è più io non posso morire. La fotografia non può morire. Cambia. E con essa è cambiato il mio modo di fare fotografia. Non è che uno sia meglio dell’altro, attenzione. Dicono cose diverse. Se ci fosse la possibilità di avere due linguaggi, sarebbe bello tenere entrambi, ma certamente il futuro è del digitale. Però si può, ogni tanto, fare un’operazione archeologica, no? No limits.

Fermento o contemplazione?

Contemplazione che generi fermento. Passo la mia vita a vedere delle cose per poi rifarle nel mio mondo.
Se vedo una cosa che mi piace enormemente, non la fotografo nemmeno se ho la macchina in tasca.
La contemplo e poi penso che sia una cosa meravigliosa. Questa la rifaccio. Però è una posizione del mondo personale. Porto tutto dentro il mio mondo.
Penso che la fotografia e l’arte in generale non debba mai parlare della realtà ma debba alludere alla realtà. Ne crea una parallela che prende spunto dalla realtà ma che poi viene traslata in simbolo.

Questa è la grande differenza tra la fotografia di moda e il foto-giornalismo ad esempio

Questo è stato argomento di una delle ultime discussioni che ho avuto con Gabriele Basilico, il quale sosteneva una certa oggettività nei suoi scatti a Beirut. Ma la Beirut che ha visto lui l’ha vista solo lui. Ci sono una serie di scelte che un foto reporter compie: la scelta dell’inquadratura, del punto di vista, insomma scelte che generano una realtà che non è la vera realtà. Allude alla realtà ma non la rappresenta oggettivamente.
La Beirut di Gabriele (Basilico) non è la vera Beirut ma è quella che ha visto lui. Ed è sicuramente meglio perché la trasferisce tra i simboli ed è quello che la rende meravigliosa. Non è tale e quale. La fotografia non è mai tale e quale perché la vita è eterna mutazione.
La fotografia non ha nessuna attinenza col reale. Allude al reale. Tutta.
La vita è una sequenza ininterrotta di movimenti. La fotografia è un’istanza di morte e nono di vita. Non ha attinenza col reale. Allude. Usa il reale per trasformarlo in simbolo. E quella è la sua meraviglia.

Trovi che la femminilità sia cambiata negli ultimi 10 anni. Quanto e in che direzione

La femminilità non è mai cambiata e non cambierà mai. Gli uomini tendono ad involgarire le donne nel peggior modo più possibile. Quindi, sta alle donne resistere. Sta a voi. Si è molto involgarito tutto e gli uomini tentano di mascolinizzare le donne.

Dobbiamo resistere dunque

Secondo me gli esseri umani devono avere dignità. Anche l’erotismo. C’è un erotismo dignitoso e c’è un erotismo non dignitoso. Ma sono le donne a non doverlo accettare e purtroppo c’è una categoria di donne che lo ritiene necessario per essere accettate.

Photographer:
Daniela Iraci - www.danielairaci.com
Text:
Valentina Maria Marchioni