La grande corsa di Maximilian Linz / part one
Maximilian Linz sta per traslocare.
La sua vita è una continua intersezione tra movimenti verso l’altro e incontri
laterali: una vita piena di accadimenti inusuali e di successi. Provo a raccontarne la
trama.
Inizia dall’idea di un dislocamento una conversazione inusuale, un lunghissimo
abbraccio che Maximilian estende alle persone amate e ai luoghi, evocando il
proprio passato come fosse un vecchio amico al cui spirito non ci si abitua mai. È un
lungo ripercorrere il proprio passato attraverso un viaggio pieno di persone fatidiche,
di luoghi speciali, di fatiche, di famiglie, di discoteche, di incroci e di parallelismi
fatali.
Maximilian lascia in questi giorni un luogo che gli è appartenuto per 12 anni, e lo fa
con il garbo che capisco subito essere un suo tratto distintivo. Dice: sto tenendo
pulito, lascerò tutto in ordine, ma inizia a vedere nella mente il nuovo ufficio. Si
muove sempre, ogni volta, oltre i confini appena raggiunti. Li supera per altri lidi, è
una pratica applicabile come metafora a tutta la sua esistenza. Va verso un nuovo
mondo, inconosciuto, ammirato, lontano, alla stregua di quando era ragazzo, e
inseguiva un sogno lieto attraverso passaggi insidiosi e sinuosi. Mentre racconta
degli esordi milanesi in via Arena, Linz ci porta a un tempo ancora precedente.
Nasce a Rio nel 19.. da un padre figlio di austriaci e portoghesi e una mamma
italiana calabrese, cognome Carnevale.
“Dopo essere migrati in Brasile negli anni ‘50, i miei genitori si rapportavano solo
con altre famiglie emigrate, spagnole, portoghesi… non erano certo razzisti ma
erano legati a elementi sociali tipici di chi si sposta infinitamente lontano da casa.
Mia nonna, partita lasciando tutta la famiglia in Italia, era incinta durante il viaggio
e mia madre è nata in casa. Si parlava solo italiano e a scuola facevo fatica, i
miei vivevano con vergogna questa mancanza, e tutti ridevano perché nominavo le
cose nella lingua di origine. Anche l’educazione morale ed estetica e culturale erano
assolutamente italiane. Arrivato al liceo scientifico ho rafforzato la lingua. Mio nonno
era stato in guerra. Una volta tornato in Italia aveva incontrato la sua futura moglie,
e, avendo già dei parenti in Brasile, dopo essersi sposato in Italia, era partito verso il
Sud America. Forse la sua esperienza militare mi aveva influenzato, perché tra i
miei desideri c’era, vivido, quello di fare il militare. Il desiderio fortissimo di
muovermi, di vivere altrove rispetto a Rio, mi ha sempre pervaso come un fuoco.
L’Europa era una meta agognata, un sogno coerente.
Capisco subito che Linz è un uomo che applica ai sogni estenuate ricerche e una
forza sovrumana, non per renderli vividi nel pensarli ma piuttosto per capire come
attuarli. In questa distanza tra l’immaginato, il desiderato e il possibile, egli
costruisce con la volontà una quarta dimensione: il realizzabile.
Il suo è un viaggio assoluto.
Riprende:
“Avrei potuto scegliere dove fare la leva, avendo io doppia cittadinanza, ma i miei
genitori preferirono invitarmi allo studio piuttosto che alle armi: -devi fare
l’università, Max!–
Erano di origine contadina, sarebbe stato un riscatto importante, il mio.
In quella fase mia nonna fu fantastica perché mantenne l’equilibrio emozionale tra
le asperità dei sentimenti vari e mi consigliò di fare ciò che desideravo, trattenendo
il timore della lontananza e mitigandolo con saggezza nei miei genitori.
Se i miei nonni incarnavano lo spirito pionieristico, ambizioso e terreno legato alla
famiglia, mio padre aveva già un lavoro di prestigio.
Vestiva in maniera elegante: era un punto di riferimento di ispirazione. Il suo
mestiere era quello di disegnare tovaglie di plastica che avessero grande bellezza,
largamente vendibili pur mantenendo un rigore ornamentale e una qualità altissimi.
Aveva una visione complessa, non semplicistica: certamente dettò in me i primi
desideri estetici. Le macchine d’epoca, i vestiti, mi tentavano e mi facevano sentire
molto vicino a lui, per gusto e ricercatezza.
Quando partii da Rio ero incuriosito e attirato dall’Italia come luogo di bellezza,
prima ancora che il fulcro del mondo della moda, le cui dinamiche non conoscevo
affatto. Una volta salutato il Brasile, iniziò il mio percorso lavorativo
Prima Roma poi la Calabria per capire le mie origini.
I miei parenti spinsero verso Milano:
“A Milano c’è una famiglia che ti può ospitare per cercare un lavoro. Cosa sai fare?”
“So parlare inglese”
Ho iniziato a fare le pulizie, poi Mc Donald’s, e un part time al centro Bonola.
In Brasile la parabola d’amore dei miei si incrinò fino al divorzio. Hanno terminato le
loro vite a 12 giorni di distanza l’uno dall’altro”.
Sarebbe forse un elemento quasi poetico, se non fosse che Maximilian è diventato
orfano in meno di due settimane. Il legame con i genitori è stato dirimente, perché
è grazie al superamento delle proprie paure nel lasciare andare un ragazzo giovane
a seguire un cammino minato di incertezze che la famiglia è stata capace di
regalare al figlio adorato la possibilità di imparare.
In Italia dal 1990, Max si ritrova in un crocevia magico internazionale di persone
creative, collocato (quasi) per caso in un cosmo variegato di intersezioni culturali
rivoluzionarie, dalla musica dei proto generi all’epopea mondana, dall’universo della
moda a quello non meno affascinante della notte.
Sarà proprio da uno di questi luoghi di culto di musiche che s’intrecciano con
subculture underground – il Plastic di Milano – che Maximilian conoscerà i
coprotagonisti del suo successo.