GIAN PAOLO BARBIERI: MASTER OF BEAUTY di Valentina Marchioni

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text by VALENTINA MARCHIONI

Photo by DANIELA IRACI

Trovarsi a tu per tu con un protagonista della Storia contemporanea, sia essa economica, politica, musicale, dell’arte, cinematografica o, come in questo caso, della moda, è sempre un’incognita. Le persone reagiscono in maniera così diversa alla spinta del successo e della notorietà che non sai mai cosa aspettarti.

Per alcuni la fama è una seconda pelle sotto cui nascondere le proprie umane insicurezze, per altri è un abito favoloso da indossare con compiaciuta supponenza nel desiderio -spesso esaudito- di alimentare, con l’altrui invidie ed appetito, il proprio ego smisurato e stravagante. Pochi quelli che riescono a mantenersi coi piedi per terra e a vedere fama e notorietà per ciò che sono davvero: un (importante sicuramente) riconoscimento sociale, frutto però di un misto (per ognuno diverso) di talento, opportunità presentate e colte, e fortuna. Costoro -più degli altri- hanno molto rispetto del proprio talento e sanno che il vero successo è una costante conquista: per questo non smettono mai di cercare. Sono persone rigorose e disciplinate e spesso, tendenti al perfezionismo. E può persino capitare che, sebbene consci e giustamente soddisfatti della propria carriera, siano anche individui ragionevolmente modesti. Gianpaolo Barbieri è sintesi straordinaria di questo mix di rigore, disciplina e sobrietà e ogni elemento intorno a lui suggerisce equilibrio tra queste forze. Artista complesso e ostinatamente colto è un uomo curioso, alla costante ricerca della definizione di bellezza e della capacità di coglierla in ogni aspetto della vita, perché, come dice egli stesso “la cultura porta a capire la bellezza e la bellezza è cultura” . Risorsa, quest’ultima,tanto preziosa quanto rara nel mondo della moda di oggi. Padrone di casa premuroso e dai modi garbati, Barbieri rievoca con delicatezza i caleidoscopici scenari che hanno attraversato le passate decadi della moda contemporanea, ripercorrendo alcune stanze della sua memoria con una commossa naturalezza. Ho anzi l’impressione che, con il procedere della nostra formale (non abbandoneremo mai il rispettoso “Lei”) eppur sempre più intima conversazione, i ricordi scaturiti dai suoi aneddoti, rigenerino in lui sopite emozioni. E spesso, i suoi occhi oltrepassano i confini del tempo. C’è una velata emozione nel racconto della prima volta che incontrò la magia del cinema. Una memoria molto intima e remota che lo vede ancora bambino, accompagnato per mano dal fratello maggiore al Cinema Cantù, una delle prime sale cinematografiche della Milano degli anni quaranta a vedere Uragano, film che dischiuderà la strada all’amore incondizionato per l’artificio cinematografico. Passione che, poco più che adolescente, lo porterà a Roma nella Cinecittà di Fellini e della Magnani e che non abbandonerà mai.

Il cinema manterrà un’enorme influenza anche sul Barbieri fotografo. Una compagnia costante in tutta la sua vita professionale, che qualche anno fa prende forma nel progetto cinephotography (http://www.darkmemories.it/cinephotography/), nove straordinarie sperimentazioni made by Barbieri, intersezione tra mondo fotografico e cinematografico. Universi imperanti anche nelle architetture del suo luminoso studio milanese, un tempo mensa operaia, dominato da pareti cerulee e mattoni rossi a vista e squisitamente adornato da oggetti di rara ricercatezza che quasi spariscono nella vastità dei suoi spazi. Al centro dell’ampio soffitto della sala principale è sospesa una complessa struttura di tubi, pensata per riprodurre l’effetto pioggia mentre nel fondo dello stanzone sono allineati, gli uni gli altri, diversi macchinari per effetti cinematografici, tra tutti un eolifono (la macchina del vento) e un imponente faro orientabile. La bellezza per Barbieri non è un concetto univoco ma assoluto, il cui tratto distintivo è la tendenza alla perfezione e la maniacale ricostruzione dei dettagli. Caratteristica questa che, come soleva dire Anna Piaggi (amica e compagna di cassoeula dello stesso Barbieri), fa della fotografia di Barbieri un’opera “quasi leonardesca”. Ricerca incessante e consapevole la sua che ha tanto ispirato e guidato la sua mano nello scatto, quanto orientato il cammino e le scelte nella sua vita privata.

Il suo nome, insieme a quello di stilisti come Valentino, Yves Saint Laurent, Giorgio Armani, Gianfranco Ferrè, è indissolubilmente legato alla nascita del mondo della moda. Secondo lei, la moda di oggi è ancora un sogno che evoca un mito? Credo che la moda non rispecchi più il discorso che si poteva fare anni addietro. Specialmente la donna è molto cambiata. Va con i tempi. E’ ovvio. Ieri c’era la mongolfiera piuttosto che il trenino oggi c’è il jet, il concord. Tutto si adegua. Ma la moda non è assolutamente più concepibile come lo era prima. Ricordo quando c’erano le collezioni e si diceva “quest anno va il marrone, quest anno va la riga, quest anno va il pois” per dire e tutti seguivano. Italia compresa. Poi è uscito il prét à porter, che ha dato l’opportunità alle donne di vestirsi elegante spendendo meno. Oggi è degenerato anche quello. Perché si vede in strada, specialmente in molte città del mondo, come New York, Berlino e via discorrendo, le donne che vestono malissimo. Perché non hanno più una misura e un senso dell’eleganza che avevano ieri. Ieri la donna non usciva se non andava dal parrucchiere, se non aveva la borsetta coordinata col vestito, se non aveva un vestito creato in un certo modo. Questo però, ripeto, va con i tempi.

Eppure il fashion oggi più che allora è un mondo di grandi influenze… Oggi le donne vengono sedotte dalle marche e dal brand. Le donne oggi fanno anche sacrifici per avere una borsa di Louis Vuitton, l’accessorio di Chanel piuttosto che una marca anonima. Il brand più che altro è oggi tenuto in considerazione.

Quale donna viene oggi rappresentata nella fotografia di moda? Inizio dicendo che le modelle di ieri erano “modelle” e donne dalla forte personalità, di spessore e con una cultura. Insomma sapevano lavorare. Cosa che oggi è difficilissima da trovare. Oggi le modelle sono stereotipate e appaiono levigate dal discorso del digitale, che ha portato il fotografo a ritoccare eccessivamente quella che è la personalità della modella. Si rifanno le labbra, gli occhi, si allungano le gambe, si eliminano la porosità della pelle… Questo cambia tutto il discorso della fotografia di moda. Non penso nemmeno si possa più parlare di fotografia di moda come quando c’era l’analogico dove non si potevano commettere degli errori perché non c’era il ritocco. Oggi chi prende in mano la macchina fotografica prende una digitale che ti porta ad avere un prodotto immediato e con photoshop puoi plasmare l’immagine della donna che preferisci…

Lei è contrario all’uso della digitale? Sono contrario perché c’è una facilità estrema. Io che vengo dalla camera oscura so cosa vuol dire stampare, illuminare un volto. Oggi mi è capitato molte volte di sentire discorsi tra fotografi e art director di case di pubblicità dire “mi piacerebbe di più così...” e rispondere “non ti preoccupare, tanto con photoshop poi aggiustiamo”. Questo non è giusto secondo me. Noi lavoravamo moltissimo sul fattore luce, sul movimento e sulla graficità dell’immagine. Oggi non si guarda più a questo.

A riguardo del concetto di “luce”, cui il suo scatto è molto legato. Questo è un elemento fondamentale nelle sue ricerche fotografiche. La luce quasi come assoluto. Non crede che il digitale, e quindi il ritocco (cui lei non ricorre), possa contribuire grandemente a creare nuovi e prima d’oggi impossibili contrasti di luce? Senz’altro è un aiuto ma il punto rimane secondo me sempre legato alla mancanza di personalità delle modelle di moda di oggi. Tant’è vero che i grandi brand che vogliono fare pubblicità puntano molto di più su volto di un’attrice over 40 (ritoccata e ripulita) ma con visi che esprimono e seducono. La modella oggi non ha quell’intensità e intelligenza di sguardo che può sedurre il lettore al punto da fargli dire “compro questo prodotto”.

Quindi la scelta del testimonial non è solo veicolata dalla notorietà del volto ma anche dalla personalità a fronte di uno scarso spessore delle modelle oggi…. Diciamo che mi è capitato, in tempi recenti, di vedere modelle che invitate a indossare un capo, diciamo un guanto, lo guardano, se lo rigirano per le mani e non sanno cosa farne, come indossarlo…Negli anni ’80, ’90 quando dovevo scattare, la modella arrivava in studio che era una ragazza delavé, con niente addosso e da lì si cominciava a costruire l’artificio.. E succedeva che quando entrava nel camerino le si dava il capo da indossare e dal camerino stesso lei cominciava a fare espressioni, movimenti che potevano essere utili in sede di ripresa. E quello che mi stupiva sempre è che qualsiasi tipo di prodotto mettevi addosso a queste ragazze, loro lo facevano loro.

E’ vero che le collezioni vivono grazie al fotografo che ne interpreta le idee e alla modelle che ne personificano lo stile oppure ci sono diverse forze in gioco? Beh, è sempre stato così… Noi (fotografi) quando lavoravamo con le grandi case di moda, tipo Versace, Yves Saint Laurent, Valentino discutevamo prima di creare un’idea di campagna…Ma eravamo anche completamente liberi di presentare un progetto. Ora accade che alcuni stilisti prendano in mano la situazione e impongano il loro punto di vista al fotografo. Mi è capitato ultimamente coi nuovi stilisti di Valentino iniziare a Parigi alcune sessioni fotografiche di pubblicità e ad un certo punto è arrivato lo stilista chiedendo che la modella non fosse modella che non avesse una pettinatura, le unghie curate. Ad un certo punto dunque bisogna prendere atto del desiderio del committente e rifare tutto il lavoro. Lavare il rosso dalle unghie, spettinarla.

Pensa che la complessità del mondo del fashion di oggi abbia mutato il rapporto di forze che regola la relazione tra fotografo e stilista?

Una stretta collaborazione tra stilista e fotografo direi che c’è sempre stata. Il periodo in cui i fotografi erano più liberi di produrre delle immagini per un mercato che era nascente era nei primissimi anni del Prét à Porter italiano, quando anche gli stilisti iniziavano un discorso nuovo. Con un immagine si cercava di sedurre e creare una situazione. Una volta Gianni Versace mi disse “tu hai avuto la prerogativa di togliere la donna dalla pedana e di metterla nella vita reale” e io non me ne ero nemmeno accorto (alza le braccia al cielo, ndr). Probabilmente andavo coi tempi.

Anche perché lei è un autodidatta. Parliamo un po’ dei suoi esordi… (Sorride) Oh si…facevo dei servizi a Roma per aspiranti attori. Sono stato lì per un anno circa. Erano gli anni di Fellini della Magnani. Mi ricordo di un episodio, una volta, a Cinecittà entrai in un capannone e c’era appunto la Magnani che urlava al tecnico delle luci “A Giovà, strigni, strigni, allarga”.Ecco, tornando al discorso delle donne di personalità, la Magnani è sicuramente uno di quei casi in cui da un forte carisma e da una personalità forte emerge bellezza anche laddove non c’è quello stereotipo di estetica. Quando io fotografavo le modelle di allora ognuna aveva una sua personalità. Oggi mi sembrano fatte un pò tutte con lo stampino, anche forse grazie a photoshop.

Cioè? Dai primordi della fotografia di moda, parlo degli anni ’30, ad oggi si vede un’ incredibile evoluzione della donna. Dall’immagine di una signora ben pettinata, proporzionata, con abiti longuette e via dicendo si è passati ai modelli di Chanel e Schiapparelli (Elsa Schiapparelli, stilista romana di nobili natali, nipote di Giovanni, famoso astronomo, ndr) che hanno decretato il discorso del twin set, togliendo il busto alla donna e da lì la donna ha cominciato a cambiare. Poi sono arrivate le bellezze naturali tipo Tilly Tizzani, Isabella Albonico. Poi dopo di colpo è arrivata la Twiggy, famosa per la sua magrezza e che ha dato il là ad un nuovo tipo di donna. Così arriviamo agli anni ’70 dove la donna ancora era bella ma più naturale, meno truccata, meno pettinata, più libera con movimento.

Movimento che nei suoi scatti non è mai mancato e che, è cosa nota, lei ha mutuato dalla sua grande passione per il cinema. Quanto questo ha influito nella sua formazione? Moltissimo, direi… Non scorderò mai quando io e mio fratello andammo al cinema a vedere Uragano. Fu subito amore… Davanti a quello spettacolo io impazzivo e l’emozione di quelle immagini in movimento, le luci, le ambientazioni. Quando vedevo quelle attrici mi innamoravo. Tan’è vero che poi prendevo le mie amiche di scuola il pomeriggio e le fotografavo nella cantina di casa mia.

Rimaniamo nella categoria movimento e staticità. Come mai, a un certo punto, ha deciso di contrapporre, al dinamismo della sua fotografia di moda, la staticità della natura costruita. Penso alla mostra Innatural (del 2004 in Triennale) o al calendario Epson. Perché animare di movimento la moda e le sue interpreti e fermare per sempre in un destino d’immobilità l’instancabile e perpetuamente mobile natura? Forse non lo so neanche io ma credo che era il fatto di ritrovare la bellezza che esiste in natura in un’immagine e questa immagine avrebbe dovuto sedurre e compiacere chi guardava questa foto e in definitiva le persone avrebbero visto oggetti, piante e animali in modi che mai prima erano stati fotografati. Cito spesso Gaugain per dire che si è affidato alla natura perché non c’è niente di più bello della natura e non c’è niente di più da inventare oltre la natura e che quindi bisogna affidarsi ad essa per esprimersi e per inventare cose nuove. Quando lavoro non penso mai “ah, devo arrivare lì” io lavoro e basta e l’unico metro è la soddisfazione che provo nel vedere un lavoro finito.

Come sarebbe la fotografia di Gianpaolo Barbieri se fosse un fotografo nativo digitale? Avrebbe ancora quell’attitudine al dettaglio, valorizzato in ogni sua impercettibile minuzia o pensa (crede) sarebbe diverso? Se lei fosse nato nell’era del digitale come pensa sarebbe stata la sua estetica, che tipo di fotografia avrebbe fatto? Se avessi avessi avuto la stessa personalità penso che sarei riuscito ugualmente perché tra quelli che prendono in mano il digitale oggi, sono pochi quelli che riescono ad affermarsi per un certo modo di proporsi e di piacere ad un pubblico. Uno degli ultimi è David LaChapelle. Io sono stato penalizzato dal fatto di aver scelto di restare in Italia. Non ho mai accettato contratti di Vogue America. Stare in America per 9 mesi. Trovavo tutto molto falso. Così quando ho pensato che la moda fosse diventata falsa, mi sono dedicato ad altro, ai viaggi, alla natura e a cose che ritenevo più importanti.

Come il corpo umano? Il discorso va visto da diversi punti di vista. Dopo aver pubblicato tre libri con Taschen, ho pensato sarebbe stato bello realizzare un libro su un’isola italiana e avevo punto sulla Sicilia. Beh, ci crede che non ho trovato un solo sponsor e tantomeno una persona che abbia manifestato interesse nel mio progetto? Varie persone mi hanno suggerito come molto di tendenza “l’erotismo nella fotografia”. Mi consigliarono di dedicarmi a ciò perché la mia fotografia non è mai volgare. Fossi stato in grado di trattare l’erotismo come fosse un fiore avrei fatto delle belle cose. Da qui nacque l’idea di lavorare ad un progetto sull’ erotismo.

Da lì in poi tutto facile… Ma insomma… Inizialmente pensai di estrapolare da libri di scrittori di viaggi delle frasi e di prendere come riferimenti la frase e tradurla in immagine. Mi resi subito conto dell’enormità del problema, di viaggi, trasferimenti. Allora scartai questa idea. Decisi allora di prendere un autore solo. Scelsi William Shakespeare, la cui drammaturgia ha tutto. E allora anche lì, ebbi l’idea di trasformare in immagine le scene delle sue opere. Giulietta, ad esempio, la vedevo in Fifth Avenue sotto un temporale nuda e morta sotto un taxi. Romeo lì di fianco che si strappa i capelli. Per le streghe di Macbeth volevo fotografare le mie modelle famose in un bar nude con un impermeabile di plastica. E per Otello, un fazzoletto di pizzo che vola… Ma poi, anche in questo caso ho dovuto ridurre il progetto e così mi sono deciso a fare sfondo grigio in studio e pace. E così è stato. Senza autori e senza riferimenti. Per spendere meno.

Così. Per una questione pratica. Pura contingenza.

Quale pensa sia stato il suo più grande contributo alla fotografia di moda? Forse il fatto di aver portato la moda in esterno e di averla dinamicizzata come se fosse una fotografia di cinema. Che poi è ciò che caratterizza maggiormente il mio lavoro.

Quale collegamento pensa di aver contribuito a realizzare tra i due mondi fotografico e cinematografico? (Non ci pensa nemmeno un attimo, ndr)L’artificio, ovvero la trasformazione della modella che avviene in camerino con pettinatura, vestito, trucco e poi in pedana, sotto le luci, il fotografo che le dà indicazioni sul movimento. Tutto diventa artificio e lei non è più una modella ma un oggetto che si trasforma. E come dicevo prima, dipende molto dalla preparazione della modella e da quello che riesce a dare. Come noi abbiamo diversi modi di essere sensibili, la modella fa altrettanto. Ricordo che negli anni ’80 e ’90 con le mie modelle, buttavo via il primo rullino perché, tra di noi cominciava ad esserci un feeling particolare solo dopo diverso tempo che eravamo lì. Tutto accadeva all’improvviso, quando ad un certo punto io vedevo la bellezza uscirle dal volto. Era una cosa stranissima che non si può spiegare. E allora diventava come un orgasmo tra me e lei e in quel momento io avevo la foto. Che avessi scattato un rullino o cinque, io avevo la foto solo in quel secondo particolare.

Quanto la fortuna ha giocato nella sua ascesa professionale e quanto invece pensa sia imputabile alla sua ferma determinazione di diventare un fotografo? Io sono perfettamente consapevole di dover dire grazie alla mia famiglia che mi ha supportato mantenendomi coi piedi in terra. I miei genitori si sono sempre voluti bene e non li ho mai sentiti alzare la voce tra di loro, fino alla fine dei loro giorni. Mio padre aveva una ditta di ingrosso di tessuti e mi ha dato molto. Mi ha sempre considerato e coinvolto nella scelta degli abbinamenti dei colori. Abbiamo spesso fatto le collezioni insieme. Poi, molto importante per la mia carriera è stato l’incontro a Roma con Gustav Zumsted proprietario dell’Abraham, azienda che forniva tessuti per Saint Laurent e altri. Lo incontrai a Roma, era amico di un antiquario presso il quale io lavoravo per arrotondare e al quale tenevo la contabilità (Barbieri è ragioniere di formazione e ha studiato Economia e Commercio alla Cattolica, ndr). Conobbi quella persona meglio e mi chiese di portargli le mie foto, una sera a casa dell’antiquario. Mi prese la mano e mi disse che avevo una sensibilità incredibile e che ero fatto per fare la moda. Io però (sorride di cuore sulla scia di questa memoria, ndr) ero a digiuno completamente e gli domandai con candore “cosa significa fare la moda”. Mi consigliò di tornare a Milano e non perdere tempo a Roma perché era una città incancrenita. Tre mesi dopo che ero tornato a Milano mi arrivò una lettera con scritto “Hai un appuntamento all’Hotel Windsor di Parigi alle 11, il giorno tal dei tali, con Tom Kublin (fotografo molto famoso dell’epoca, che vantava scatti con Bazar America, ndr). Vai a fare le collezioni lì.”

Immagino l’emozione per un giovane aspirante fotografo, catapultato nel mondo della moda. Cosa accadde?

Mi sono messo il vestito più bello. Sono arrivato lì come un cretino di fronte a Tom (Kublin) e Tom mi fa: “Stai con me 2 giorni. Se funzioni fai le collezioni, se non funzioni torni a Milano. E non venire conciato così in studio”. Lì mi sono sentito male perché mi resi conto che ero un raccomandato. Non mi stava prendendo perché aveva bisogno di me ma perché Zusteg, che era uno che gli dava del lavoro lo aveva – diciamo – costretto ad evadere questa richiesta.

E come andò? Furono di gran lunga i 20 giorni più duri della mia vita. Si finiva di lavorare alle 4/5 del mattino. I vestiti appartenevano ai couturier fino ad una certa ora perché c’erano i buyers americani e noi li avevamo (i vestiti) la sera. Avevo 20 anni, forse nemmeno. Io, da ultimo della catena, prendevo i vestiti al mattino,andavo in giro per Parigi porta per porta a suonare i campanelli degli stilisti, Dior, Saint Laurent. Poi andavo al laboratorio colore che apriva alle nove per fare i test colore. Poi prendevo un taxi – unica spesa concessa – per andare da Ms Gramela che stampava il bianco e nero per Kublin e poi da lì tornavo al laboratorio colore per vedere i test con loro. Arrivate le 12 andavo in hotel a portare i test colore e io ero libero dalle 2 alle 4 o 5. In questo lasso di tempo potevo mangiare, dormire, lavarmi, insomma fare tutto . Entravo in vasca con una mela in bocca e le vitamine e ho fatto 20 gg così.

Beh, una bella gavetta. A si, però poi un giorno ho avuto una bella soddisfazione. Kublin mi chiede un sfondo su Chagall, perché Dior quell’anno si ispirava ai colori di Marc Chagall. Mi chiede quindi di preparargli qualcosa di inerente ai suoi colori. Chagall era tra i miei autori preferiti. Lo studio di Chagall era fotografato nella mia testa lo conoscevo a memoria. Ho comprato mimose e gladioli, una cinquantina di boccettine e bicchieri uno diverso dall’altro, i suoi colori in terra un po’ impastrugnati, insomma, ho rifatto lo studio di Chagall. Quando ho finito di farlo sento il passo di Tom scendere dalle scale. E a un certo punto bloccarsi. Mi giro e lui era lì, attonito. Impietrito. Mi guarda e mi dice “ma io non ti avevo mica chiesto tanto”. E’ stata dura ma alla fine dei 20 giorni mi ha detto di non aver mai avuto un assistente così.

Poi lui morì improvvisamente e cosa accadde dopo? Si, lui è morto dopo 20 giorni di un ictus. Sono tornato a Milano e mi sono detto “e ora cosa faccio? Il fotografo”. Ho così occupato un abbaino e mi sono messo a fare il fotografo. Inizialmente soffrivo molto perché la mia famiglia era rimasta senza soldi, l’attività di mio padre era cessata. Io ho sempre sentito il peso di dover lavorare per sostenermi. Non ho mai avuto una giovinezza. Facevo sempre qualcosa per guadagnare. A Roma era tenere la contabilità e scattare le foto agli aspiranti attori, attrici… Quando arrivai al secondo studio una notte sono svenuto dalla fame. Però ero sulla buona strada professionalmente.

Da lì poi il resto è storia…

Gli inizi sono così: si va adagio.

Pensa sia cambiato anche il modo di fare il mestiere del fotografo? Forse è cambiato l’approccio alla professione. Credo ieri fosse più umano, concreto, realista e umile. Non c’era l’idea di essere protagonisti come oggi…