“Moda, Passione, Rivoluzione parte 2”

Moda, Passione, Rivoluzione parte 2 pdf

di Roberto Pedretti

Un caldo torrido e soffocante avvolgeva come un lurido sudario l’Inghilterra nell’estate del 1976. Persino le temperature roventi e i terreni inariditi e ingialliti alimentavano quell’impressione di disagio, decadenza e declino che colpiva il paese. Improvvisamente, nelle strade e agli angoli della metropoli, apparvero delle figure disturbanti, pallide e incurvate che sembravano farsi carico faticosamente della responsabilità di annunciare la venuta dell’apocalisse. Vestiti di stracci di recupero, brandelli di cuoio e catene, ornati di oggetti appartenenti alla quotidianità più banale come spille di sicurezza e lucchetti trasmutati in monili, queste figure simili ad alieni manifestavano con il loro contegno distaccato il disgusto per un tempo senza futuro. Quell’estetica radicale chiedeva ai passanti di riflettersi in loro per guardare – come in uno specchio distorto e rivelatore – l’orrore del presente in cui tutti erano imprigionati.

La cultura punk aveva percepito e interpretato sovversivamente i sintomi di quella crisi sistemica che avrebbe trovato soluzione nei processi di ristrutturazione radicale dei rapporti sociali ed economici articolati attorno all’imporsi delle teorie economiche neo-liberiste destinate a regnare incontrastate sui decenni a venire. Con l’invenzione di un nuovo canone estetico e linguistico e attraverso l’elaborazione di un complesso sistema simbolico, la cultura punk seppe rappresentare e svelare i contenuti ideologici e le contraddizioni dei processi che presto si sarebbero cristallizzati in nuove forme di dominio ed egemonia. Snob e obliqui, ironici e inafferrabili utilizzarono l’arma della citazione colta e la guerriglia semiotica come strumenti per innervare una concezione pessimista e oscura delle relazioni sociali e della storia, rappresentate in un immaginario distopico al cui interno sembrava comunque possibile attivare forme di resistenza e opposizione. Come moderni bracconieri i punk si muovevano su un terreno infido alla ricerca di spazi simbolici e materiali in cui esercitare e sperimentare nuove pratiche culturali e forme di interazione sociale. Nel gioco crittografico del punk l’anarchia, il caos, il disordine sono le chiavi per decifrare e svelare la natura dirompente della crisi in atto.

Questa condensazione di creatività ispirata al quotidiano e a suggestioni artistiche ed estetiche derivate dalle avanguardie culturali del Novecento non poteva che riverberarsi sulle sensibilità della Westwood, da sempre alla ricerca di nuove forme della moda in grado di rompere con gli schemi aristocratici e borghesi dominanti. Così in quell’anno Vivienne modifica il nome del negozio battezzandolo Seditionaries, una crasi linguistica, un calembour che sottolinea ironicamente lo scopo di seduce people into revolt, sedurre per spingere alla rivolta. Quella di Vivienne non è solo l’appropriazione degli elementi più spettacolari e superficiali della cultura punk, la sua è un’adesione culturale e politica a un movimento che le appare in quel momento come l’unica forma di opposizione radicale alla decadenza della Gran Bretagna. Stabilisce una relazione totalizzante con il punk che la porta a diventare protagonista e testimone della scena cui contribuisce con le proprie creazioni e prese di posizione pubblica.

La stilista inizia un paradossale processo di codificazione dinamica dello stilema sovversivo veicolato dal punk che, se per un verso contribuisce alla normalizzazione degli eccessi e dell’insubordinazione estetica della nuova cultura giovanile, dall’altro rivela i paradossi e le ambiguità proprie delle relazioni di potere e sfruttamento che si declinano tra pratiche culturali e mercato.

Sulla scia dell’approccio estetico e culturale punk Vivienne pone in essere nella propria moda un processo di bricolage culturale che decostruisce/ricostruisce il significato degli oggetti, degli scarti, dei tessuti, degli indumenti articolando una sintassi stilistica ed estetica destinata a fare scuola nel modo della moda. L’irrilevante, l’avanzo, lo scarto, i cascami del mercato del consumo diventano elementi costitutivi di uno stile che frantuma l’ordine gerarchico della moda. Per la prima volta, attraverso pratiche nate all’interno della cultura popolare e delle culture giovanili, si assiste a un ribaltamento dell’ordine “naturale” delle cose. La moda non è più solo uno strumento simbolico di distinzione di classe e culturale: proiettata nel mondo del mercato di massa ne moltiplica all’infinito le tipologie di consumo e gli stili interpretando la frammentazione e l’articolazione sociali caratteristici della postmodernità in divenire.

In questo senso la vicenda di Vivienne Westwood è paradigmatica: la stilista coglie nell’eversione estetica propagata dal punk quella coerenza decostruzionista che in qualche modo era già presente in forma embrionale nella sua idea di moda. L’appropriazione di questo modello estetico culmina in un processo – per certi versi ambiguo – di ordinamento e codificazione che progressivamente svuota il punk della carica ribellistica ed eversiva. Paradossalmente è la stessa Westwood a decretarne la fine: “Mi ero stancata di considerare il vestire da una posizione ribelle…era troppo stancante, e alla fine non ero sicura di essere nel giusto. Sono certa che quando esiste una cosa chiamata antisistema serva ad alimentare il sistema.” Resta comunque intatto il lascito estetico e culturale di quella breve esperienza che riappare ogni stagione sulle passerelle delle case di moda più affermate e sulle riviste più patinate e di tendenza. Anche se i parafernalia della cultura punk sono stati svuotati e neutralizzati della loro valenza iconoclasta, la presenza continua e tangibile di questi segni è indicativa del ruolo significativo e il fascino che questa cultura continua a esercitare nell’immaginario collettivo. Ne è una conferma la scelta di una prestigiosa istituzione come il Victoria & Albert Museum di Londra che nel 2004 propose una retrospettiva della carriera della Westwood esponendo circa 150 pezzi della produzione della stilista, una mostra particolarmente ricca di capi di abbigliamento del periodo punk. Come la copertina neo-dadaista di God Save the Queen dei Sex Pistols (sediziosi compagni di malefatte della coppia McLaren-Westwood), la camicia Anarchy, un collage di citazioni in stile situazionista, la T-shirt No Future con la foto della regina Elisabetta la cui bocca è chiusa da una spilla di sicurezza e la maglia Destroy che accosta un crocifisso capovolto a una svastica assumono oggi il valore di oggetti artistici che testimoniano in maniera violenta e provocatoria l’essenza, le contraddizioni e le ambiguità di un’epoca che continua ad affascinare e proiettare un’ombra disturbante su di noi. Come scriveva Andrè Breton nel Manifesto Surrealista del 1924 la bellezza sarà convulsiva o cesserà di essere.

(continua – 2)

Si ringrazia: Roberto Pedretti@MetropolisDue, Via Procaccini 7, Milano

Art Direction:
Popdam Magazine
Location:
Inghilterra 1976
Text:
Roberto Pedretti @MetropolisDue, Via Procaccini 7, Milano