“Moda, Passione, Rivoluzione”

Text: Roberto Pedretti

Moda, Passione, Rivoluzione-PDF

430 King’s Road. Siamo a Londra, quartiere di Chelsea: la strada lunga quasi 3 chilometri che costeggia il Tamigi piegando verso sud, conduce a Fulham per poi scavalcare il grande fiume e giungere finalmente a Putney. La lunga arteria prende il via da Sloane Square, una piazza simile a tante altre della metropoli britannica. Percorse poche centinaia di metri dalla piazza, si incontra sul lato sinistro un ampio spazio verde dominato dagli eleganti edifici che ospitano la Galleria d’arte contemporanea Saatchi. Più di trent’anni sono passati da quando in quel verde allora poco curato si allestiva un grande tendone bianco nel cui interno sfilavano le creazioni degli stilisti e delle stiliste inglesi che cercavano di conquistarsi fama e notorietà in un mondo dominato dai couturier di Francia e Italia. Già negli anni Ottanta, il civico 430 era un indirizzo conosciuto da un pubblico internazionale attento a cogliere quelle tendenze e quegli stili che rivelavano l’intenzione di interpretare la moda fuori dai canoni usuali e dai meccanismi puramente commerciali. Oggi, a un primo sguardo, il negozio cui corrisponde questo indirizzo ricorda quelle botteghe di antichità e curiosità tipicamente inglesi che sembrano uscite dalle pagine di Dickens o da quelle di qualche spy-story degli anni Sessanta ispirata alla swinging London. Dominato da un curioso orologio a muro con un quadrante a tredici cifre, il piccolo negozio è la casa di Worlds End, ed è un luogo che in realtà occupa un posto di grande rilievo nella storia della moda britannica.

All’inizio degli anni 1970 King’s Road era una delle tante arterie della metropoli che iniziavano a mostrare i segni della tempesta economica che stava per abbattersi sul paese. La Gran Bretagna si avviava a vivere un periodo di grandi tensioni sociali che alcuni storici – ispirandosi a Shakespeare – avrebbero battezzato inverno dello scontento e che sarebbe culminato con la sconfitta del welfare state, l’arrivo di Margaret Thatcher e il trionfo ideologico e culturale del neoliberismo. La crisi avrebbe riportato in vita quelle esperienze legate alla guerra appena passata che i britannici ancora ricordavano vividamente. Sarebbero tornate con il razionamento dell’energia, la scarsità di beni di consumo primari, il collasso dei trasporti e dei servizi pubblici.

Molti inglesi avrebbero visto la settimana di lavoro ridotta a tre giorni su sette, le miniere e le fabbriche sarebbero state occupate per mesi. Anche King’s Road non sfuggirà a questo destino. Chi percorre oggi la strada, incastonata in uno dei quartieri più esclusivi e cari di Londra, rimarrebbe meravigliato a immaginarla com’era allora: una striscia di asfalto costeggiata da case popolari di cui oggi rimangono solo alcune tracce, piccole attività alimentari, negozi di abbigliamento usato, pub fumosi e puzzolenti di birra, fumo, urina e sudore. Una strada ancora vivace che era stata una dei poli di quell’esplosione creativa diventata famosa con il nome diswinging London. Quei brevi e intensi anni di speranza e ottimismo, gli anni di Mary Quant e Biba, dei Beatles e dei Rolling Stones, degli Hippies e delle suggestioni orientali sarebbero stati spazzati via velocemente per essere sostituiti da un’atmosfera più cupa e plumbea che avrebbe trovato nella cultura punk la più abile e reattiva capacità di rappresentazione e lettura critica.

La giovane Vivienne Westwood arriva in King’s Road qualche anno prima dell’esplosione della cultura punk di cui sarà destinata a diventare icona e interprete. Nata nel 1941, discende da una famiglia proletaria e l’esperienza della guerra e delle privazioni postbelliche hanno maturato valori e comportamenti che la portano a odiare lo spreco e favorire il riuso, l’assemblaggio di cose diverse, il recupero, l’autosufficienza e l’auto-produzione, tutti elementi che confluiranno nel suo stile e nella sua idea di moda. Sono anni che testimoniano come la funzione e il ruolo sociale della moda si stiano rapidamente trasformando. Il boom economico postbellico ha favorito la diffusione di nuovi modelli di consumo di massa e l’accesso a numerosi beni materiali legati al tempo libero e al piacere per nuove categorie sociali, prima di fatto escluse da queste dinamiche, come i giovani e le donne. La moda cessa di essere appannaggio delle classi benestanti e borghesi e conosce un processo di democratizzazione che ne altera profondamente anche il ruolo sociale. La sociologia che fino ad allora si era esercitata sul tema aveva colto nella moda un prodotto e un riflesso delle relazioni di classe, insistendo sul fatto che la moda fosse uno strumento utilizzato dalle classi dominanti per differenziarsi dalle classi subalterne e affermare il proprio dominio. In questo contesto l’innovazione dello stile partiva dall’alto per poi scendere lentamente verso il basso sino a esaurire la propria funzione ideologica distintiva. Da qui l’esigenza di inventare nuove mode e stili che rispondessero a questa esigenza ideologica e sociale. Le trasformazioni sociali e produttive del periodo scardinano questo meccanismo e impongono una diversa riflessione sul ruolo e natura della moda e dello stile. La diffusione di forme di benessere materiale anche negli strati sociali inferiori e le capacità produttive offerte dalla tecnologia favoriscono processi di socializzazione della moda e l’affermarsi di dinamiche che consentono l’entrata sulla scena di attori sociali che contribuiscono a stabilire e diffondere nuove regole, gusti, stili. I creativi e gli osservatori più sensibili alle modificazioni sociali iniziano a cogliere nelle strade, nelle bancarelle dei mercati, nei luoghi di svago gli spazi e le occasioni dove si producono e prendono vita forme di espressione legate alla moda che riflettono l’evidente e progressiva frammentazione e moltiplicazione dei gusti e degli stili. Anzi, a volte sono essi stessi, i creativi come Vivienne Westwood, ad essere le avanguardie di questa svolta culturale ed estetica.

La prima insegna del negozio di Vivienne Westwood al 430 di King’s Road porta il nome Let It Rock. Nel 1971, insieme al compagno di allora Malcolm McLaren – artista affascinato dal situazionismo e dalle correnti estetiche sperimentali del primo Novecento e destinato a scrivere la storia della cultura punk – stanchi delle tendenze hippie e orientaleggianti aprono il negozio dove vendono abbigliamento ispirato ai teddy-boy e abiti e dischi recuperati sulle bancarelle dei mercati. Ma è soprattutto il luogo in cui Vivienne comincia a produrre e mettere in vendita capi di abbigliamento originali che esprimono la sua creatività e rappresentano i valori con cui è cresciuta. Inizia a usare materiali poveri, strappa e buca il tessuto, destruttura l’abito tradizionale tagliando e scucendo. Da giovanissima era stata colpita da una creazione del sarto francese Christian Dior e forse questa tensione distruttiva rivela un desiderio iconoclasta nei confronti di un canone estetico di cui avverte i limiti e il segno conservatore. Il marchio Let It Rockdura solo un anno e viene sostituito da TooFast to Live, Too Young to Die, un’insegna per rocker e biker, esponenti di un’altra sottocultura giovanile dell’epoca influenzata in particolare dalla cultura americana filtrata attraverso la cinematografia hollywoodiana. Vivienne continua nella sua ricerca estetica lavorando su t-shirt che decora con piume, borchie, lucchetti, pezzi di catene, frammenti di pneumatico, ossa di pollo, zip e cerniere applicate all’altezza dei capezzoli di ispirazione sadomaso. Stampa le maglie con disegni originali utilizzando come matrice una patata tagliata in due. E’ un periodo di creatività ispirata alle teorie dell’artista dadaista Marcel Duchamps: opere d’arte realizzate utilizzando oggetti e frammenti che appartengono alla pratica del quotidiano, rifiuti e relitti del processo industriale ed economico che riprendono vita e assumono nuovi significati eversivi e provocatori. E’ l’anticipazione della filosofia e della cultura punk.

(1 – continua)

Thanks to Roberto Pedretti @ Metropolis Due, Via Procaccini 7, Milano.

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Roberto Pedretti