TOM AND THE REBLS
Come TOM divenne REBL:
Sarà per l’ambientazione fiabesca della sua infanzia o per l’incanto che lo ha avvicinato al mondo
della moda o forse per quello stile noir allo stesso tempo così sofisticato ed esclusivo, ricreato
anche nelle sue sflate/eventi. Sarà per tutte queste ragioni ma la vita di Tom Rebl ricorda la
trama di una favola. Certo contemporanea, certo underground ed elettronica ma pur sempre una
favola degna di questo nome. E allora, come si addice ad una fiaba…
C’era una volta un bambino che amava correre, giocare e fare rock in luoghi incantati, dove il
verde degli alberi è interroto solo dalle perfette geometrie di castelli arroccati come fiori di
montagna su creste rocciose. Dalle fitte foreste bavaresi alla giungla urbana londinese il passo fu
breve e nell’humus underground della città degli RadioHead, Tom lasciò spazio alla sua anima
Rebl.
Di quel giovane dalle gote rosse oggi rimane poco. Trachtenhut e Lederhosen (il cappello in lana
cotta ed i tradizionali pantaloncini con bretelle alla bavarese) hanno lasciato il posto a una
shocking radiance, frutto di una autentica e profonda ricerca stilistica e di materiali. La sua moda è
una riflessione sull’adesso e sulla società in cui viviamo. I suoi capi sono sovrapposizioni di linee
dai tagli netti e decisi (retaggio teutonico di uno stilista cosmopolita). Sin dall’inizio della sua
carriera Tom si è sempre opposto alle regole del fashion system, diventando così voce e bandiera
di una nuova generazione di stilisti, più liberi di giocare, esprimersi e anche di contestare con
ironia e naturalezza il naturale ordine delle cose.
Molte le celebrità che hanno sposato la sua filosofa. Tra gli artisti che hanno indossato i suoi capi,
innumerevoli star di musica (sua altra grande passione mai sopita): dai Green Day, a Justin Bieber,
da Piero Pelù ai Litfiba, passando per i Bluvertigo, Sergio Carnevale, Emis Killa, Club Dogo, Stash
from The Kolors e Chris Cab, solo per nominarne alcuni. Di Tom hanno detto e scritto molto.
Provocatorio, incantatore, avanguardista e tanto altro. Popdam lo ha incontrato durante il
movimentato shooting di Alex Giacomelli in cui lo stilista è, insieme alle sue creazioni, vero
padrone della scena. Indossando i panni del leader di una gang di cattivi, Tom Rebl si racconta,
dagli esordi ai più recenti impegni, passando per le sovrapposizioni tra genere maschile e
femminile e lasciandosi anche andare ad una confessione sull’Italia della moda e sui suoi
protagonisti…
Sembra proprio che vi stiate divertendo.
Si, molto, è molto divertente. Questa è la mia gang e siamo davvero cattivi. Lo shooting è una
storia su di me e quindi i modelli hanno indossato i miei capi più rappresentativi.
Tipo quale?
Il grembiule. Sicuramente uno dei capi che più rappresentano la mia collezione. L’ho proposto in
molte versioni: di pelle o tessuto, con collo a scialle, molto elegante in doppio petto. Mi piace il
gioco di sovrapposizioni, il look del grembiule secondo me è sottovalutato. E’ comodo ma anche
bello eppure non lo vedi molto in giro. Ma io non mollo.
Il grembiule è un capo molto versatile. Si può dire che incarni la tua tensione all’unisex..
E’ da tempo che io propongo l’unisex. Fa cioè un po’ parte di me. Anche quando sono partito solo
con la collezione maschile ho sempre utlizzato dei tessuti “femminili”. C’era sempre questa
contaminazione dei generi. Mi piace. Non sono fissato con il fisico dell’uomo o della donna. Per la
stessa ragione per cui secondo i miei parametri non esiste il modello o la modella con le misure
giuste. Se ha un paio di centimetri in più o in meno, non importa: nascondo io le cose che non mi
piacciono. Jersey e drappeggi fanno parte sia della collezione uomo che donna, cambia solo la
taglia: non si tratta nemmeno più di vestibilità e di fisico che c’è sotto. Anche per questo shooting
abbiamo mescolato bene i capi. Quasi non divido nemmeno più le collezioni.
E’ per questo che fra i tuoi diversi testimonial ci sono anche personaggi che hanno fatto
dell’ambiguità la propria identità. Penso a Conchita Wurst e Jorge Gonzales…
Direi di si. A me piace uscire dai canoni e pizzicare, proporre cose che la gente non si aspetta di
vedere. Giocare… Conchita per esempio, nel contesto dell’Euro Vision, non rappresenta proprio il
mio mondo, però mi piace la versatlità con cui i miei capi vengono indossati.
A me piacciono le persone di carattere, uomini e donne che abbiano indossato una storia, che
abbiano un vissuto e che siano – a modo loro- in sintonia con il mio stile. Non giudico dalla
bellezza. Anche per quanto riguarda le donne. A me piace una donna curvie, con un
atteggiamento grintoso, self-confident e che si gestisce da sola. Una donna grintosa è consapevole
delle sue curve e del suo fisico. E non si nasconde sotto i vestiti ma li usa per esprimersi. Per
questo nei miei capi c’è molta lavorazione anche all’interno dei vestiti. Dettagli che conosci
quando li compri ma che non sono visibili.
Però la tua vera passione rimane la musica. Hai vestito i Green Day, Morgan e i Bluvertigo,
Justin Bieber, e molti altri.
Io suonavo in una band. Sono cresciuto con i RadioHead. Adesso ho appena fatto un video con i
Negramaro e Gianna Nannini. Non separo vita privata e lavoro. Io sono e vivo di quello che faccio.
Nessun grado di separazione?
Nessuno. Questo è il mio stile di vita. Non separo la vita privata da quella professionale. E’ tutto
un po’ mescolato e devo dire che si mescola anche bene: mi stimola, mi diverte e mi dà conferme.
Questa è la mia benzina.
C’è gente che ci tiene a separare i due ambiti e tu invece sei tutto un continuum… un po’ come
la palette di colori che usi…
(Ride)
Ovvero il nero. Ecco parliamo un po’ del colore nero. Perché il nero è il colore dominante delle
tue collezioni?
Per me il nero ha tanti vantaggi. Il nero è il colore di cui mi vesto sempre. E’ versatile, facile. E poi
io mi vesto sempre uguale. Tutte le mattine prendo una maglietta nera, pantaloni neri e sono
vestito. Anche quando vado in giro. Non devo stare a preoccuparmi di abbinare look. E poi non
esiste un solo nero. Il nero ha tante sfumature diverse. Io lavoro molto coi materiali e con le
superfici. Ti assicuro che c’è molto da divertirsi nel mondo del nero.
Non ne dubito
Poi comunque ho sempre altri capi in collezione che non sono neri. Solo che ultimamente, negli
ultimi anni, i miei clienti hanno aumentato molto le richieste del nero perché è un colore più
vendibile, più facile. I negozi sono sempre meno intenzionati a prendersi il rischio di esporre abiti
cangianti che poi hanno paura di non vendere.
Quindi il mercato infuenza le scelte dello stilista.
Fino ad un certo punto si, altrimenti i capi rimangono lì.
Quindi i colori non ti stanno antipatci…
Non per sé. Diciamo che non sono un tipo molto colorato, ma mi piace anche giocare di contrasto
con i colori.
Sempre però in abbinamento al nero, ovviamente.
Si. Diciamo che c’è sempre un filo nero che unisce le mie collezioni.
Ma se è vero che tu sei un continuum tra la tua vita privata e la tua vita professionale, allora mi
viene spontaneo chiederti se questa tua scelta cromatica si riflette anche nel tuo carattere…
Non so. Io non sono assolutamente una persona triste, depressa o melanconica.
Ma il nero è anche il colore dell’introspezione.
Si, sono una persona introspettiva però sono felice. Mi piace ridere, essere in mezzo alla gente.
Non sono un solitario. Mi piace anche a volte stare da solo però non vorrei che l’associazione col
nero mi facesse sembrare un triste.
Il nero non è solo il colore della tristezza, è piuttosto espressione di raffinatezza, eleganza,
essenzialità.
Io sono una persona dalle mille sfumature ma che nel suo lavoro mette molto nero. Tutto qui.
Un’altra caratteristica che ti identifica come fashion designer è la tua curiosità per l’arte che poi è una delle principali caratteristche della moda italiana. Elsa Schiaparelli ha creato abiti con Dalì, Giacometti, surrealisti vari, Mila Schon con Fontana e altri ancora. In che modo l’arte ispira ed entra nelle tue collezioni?
Ispirazione: io amo circondarmi e stare in mezzo ad artisti e gente di una certa creatività. Persone
cioè capaci sia di ispirarmi ma anche con cui confrontarmi. Mi piace ascoltare il loro punto di vista,
capire il loro metodo di lavoro, creare e fare arte. Io stesso prima di fare moda, ho studiato arte.
Non sapevo. Dove, quando, come?
A Londra, per caso.
Spiega meglio
Sono partito per Londra alla fne delle scuole superiori. L’idea era quella di aspettare l’inizio del
nuovo anno accademico per poi iscrivermi all’università e ho pensato bene di “aspettare” a
Londra. Così, per fare una piccola esperienza prima di studiare. Si trattava solo di tre mesi.
Il giovane Tom alla conquista della City
Mah, all’inizio un po’ mi annoiavo… Sono andato a Londra per fare un’esperienza. Ho trovato casa
con tre coinquilini. Uno che studiava nel college dove avrei dovuto andare anche io ed altri
due…però ero sempre da solo fnché non ho iniziato l’università. Sono stato iscritto all’art faculty
meno di un anno e poi ho capito che non era la strada giusta per me. Mi piaceva ma era uno
studio all’infinito, non avevo un obiettivo. Per me l’arte, l’artista può fare qualsiasi cosa senza
limiti ed imposizioni commerciali, mentre il designer entra in un certo ritmo ed ha un aspetto più
commerciale.
Anche gli artisti hanno dei loro circuiti commerciali.
Si, assolutamente, ma la moda è più incalzante e soprattutto ha un riscontro più immediato. Tu
crei un abito, vai in un negozio, vendi e poi si ricomincia.
Per me questa è un po’ la differenza tra l’arte e il design: l’arte vive un po’ più solo di passione, la
moda è più concreta. Da stilista ho delle scadenze precise da rispettare.
E questo ti piace?
Più che altro mi aiuta a non perdermi. Io posso stare a creare abiti per una vita, però lavorando
adesso nel Prêt-à-porter devo finire le cose per tempo altrimenti saltano le collezioni.
Torniamo un attimo a Londra. Cosa è successo dopo questi sei mesi di studio d’arte?
Nel night life londinese ho avuto modo di conoscere studenti di moda o persone che indossavano
travestimenti e vestiti bizzarri. All’epoca anche io ero un po’ più strano (ride con aria maliziosa,
ndr). Diciamo che mi è sempre piaciuto giocare con la stranezza, fino a toccare le sponde
dell’assurdo…del paradosso.
Cosa ti ha fatto scoprire (se così si può dire) la vocazione di fashion designer?
A Londra la gente si traveste in un modo scomodo, spesso brutto, solo per attrarre l’attenzione.
Quindi da lì ho ragionato sul fatto che fare moda potesse diventare un lavoro, il mio. Ho iniziato
facendo da stylist per band che suonavano e cercavano vestiti.
Ecco che torna la musica…
Si…è vero. Io davo loro una mano. All’inizio assolutamente senza guadagnarci niente.
E poi ti sei iscritto al Central St. Martins College. Quindi tutto è nato a Londra?
Si, Londra mi ha aperto il mondo. Io sono cresciuto in una piccola cittadina bavarese dove la moda
diciamo non esiste. Già in Germania fai fatica a trovarla. Ed in effetti non mi era mai passato per la
mente di fare moda. A Londra, che comunque è una cità tollerante dove c’è di tutto di più e puoi
fare quello che vuoi, mi sono sentito libero di fare ed essere ciò che mi piaceva.
E quindi sei rimasto.
Si
E i tuoi genitori come hanno accolto la tua scelta di fermarti negli UK e soprattutto entrare nel
mondo della moda?
All’inizio non erano molto contenti però mio padre non mi ha negato l’aiuto, anche economico,
necessario per andare avanti. Una volta mi disse che loro sapevano che io ho una testa pensante e
che avrei comunque fatto ciò che credevo. Mi disse che mi avrebbero supportato ma che però
volevano vedere i risultati.
Non sarà stato facile per loro..
Assolutamente no. Per loro era difficile anche solo capire il lavoro dello stlista, del quale
pensavano bevesse champagne e andasse alle feste tutto il giorno. Non sapevano com’è
organizzato il lavoro quotidiano della moda. Ci ho messo del tempo per fare capire e far veder
loro cosa faccio. Poi, poco alla volta hanno capito e dacché sono in Italia vengono spesso in
azienda. Qui hanno imparato a comprendere i meccanismi del processo produttivo (dai laboratori
al taglio) e a capire il reale valore economico di un capo di sartoria. Loro sono più abituati ai brand
commerciali che propongono per un giubboto un certo tipo di costo e all’inizio quando io dicevo
quanto costa un mio capo ci restavano un po’ così. “come mai questa differenza?” dicevano
E poi -diciamolo- i capi Tom Rebl non sono certo tra i più economici…
Si ma è sbagliato pensare che ci sia qualcuno che si arricchisce perché alla fine non è proprio così.
Non penso però che la moda si faccia pro bono. Certo la qualità dei materiali, dei tessuti, la loro lavorazione costa.
Si ma non solo. Certo che se sei più commerciale vendi di più e fai calcoli diversi, ma se fai i conti
di tutti i vari step: dagli investmenti iniziali passando per la produzione e arrivando alle vendite…
diciamo che questa professione (lo stlista, ndr) non la devi fare se vuoi diventare ricco…
Mah, su questo punto qualche dubbio lo esprimerei…
No beh dai, ok. Esistono stilisti ricchi ma credimi sono delle eccezioni.
Stilisti ricchi e famosi sono una rarità?
Si perché queste grandi firme stanno piano piano scomparendo.
La tua è una carriera in piena ascesa. Metà dei musicisti dei Grammy Award indossavano i tuoi
vestiti…
Si è vero però quanti sacrifci: fai degli orari assurdi, hai sempre costi molto alti. E poi guarda,
insegnando (Tom tiene corsi e workshop all’Istituto Marangoni di Milano, ndr) ti rendi conto che ci
sono tantissimi stilisti bravi che guadagnano davvero poco.
Ti piace insegnare?
Mi piace rimanere in contatto con i ragazzi. Mi piace il fatto che siano meno contaminati dal
business. Non sanno ancora come funziona il fashion system e questo va a vantaggio della loro
creatività e della freschezza delle loro idee.
Già nella mia testa a volte mi sento limitato dai fattori “pratici” della moda. Quindi se ho un’idea
subito ne vedo le difficoltà nella realizzazione e magari la abbandono perché poco pratica o troppo
costosa anche se a livello ideale mi piace molto. Insegnando invece puoi lasciarti andare, puoi
sognare e sicuramente ricevi un forte stimolo creativo.
La creatvità sicuramente non ti manca, come dimostrano le tue collezioni ed in particolare DADAMATIX… per la quale hai scelto il riferimento DADA, ovvero una corrente artistica che usa la creatvità in modo “scardinante”. Quali paradigmi, quali regole del fashion system intendi scardinare o pensi debbano essere scardinate?
La moda ha molte etichette e regole comportamentali, cose che si fanno perché si sono sempre
fatte e che vanno fatte perché è così. Punto. Come ci si comporta alle sfilate, alle feste etc. E’
questo che a me ha sempre dato fastidio. Ho sempre avuto con questo tipo di approccio alla moda
un rapporto di amore/odio. Sapevo che avrei dovuto giocare in questo sistema però sotto sotto
lavoravo contro. Quindi ho sempre vissuto una sorta di paradosso. All’inizio non volevo nemmeno
fare parte delle sflate ma adesso sono molto contento perché vedo qualche cambiamento
nell’aria soprattuto nelle settimane della moda che hanno una struttura molto rigida.
Quindi con la tua collezione DADAMATIX cosa hai voluto comunicare?
L’idea era quella di unire la moda con il cinema ed il teatro e lasciare che fosse la gente, il pubblico
al centro. Volevo uno show (Tom non si riferisce mai a DADAMATIX come ad una sfilata, ndr) e che
andasse avanti parecchio e che fosse divertente per chi lo viveva.
Una sflata lunghissima, completamente fuori dagli schemi.
Esatto. E nemmeno stressante come una sflata tradizionale in cui tutto avviene in un quarto
d’ora, poi prendi un bicchiere e vai da un’altra parte. La sfilata iniziava al buio. Il pubblico era
seduto e Rumore (Francky O’ Right, ndr) scavalcava i sedili, facendo rumori e suoni, sfiorando la
gente seduta che non capiva chi la stesse toccando e da dove venisse. Poi è salito sul palco ed è
iniziata la proiezione del video “Spirit of our Time” con cui Rumore interagiva. All’interno di
questo è partita la passerella. Dopo ci siamo trasferiti in un giardino piantumato bellissimo dove
abbiamo fatto un altro set con un fotografo e un cambio. Però c’erano anche bar e musicisti.
Tutto mescolato senza alcuna distanza. Un’esperienza interattiva. Lì, tanta gente si è fermata a
bere. Succedeva sempre qualcosa. Scattavamo foto, la gente era curiosa.
Fantastico. Sei stato soddisfatto quindi del risultato?
Si molto. Qualche tempo fa ho fatto una sflata con i ballerini della Dance House. Mi piace molto
uscire dagli schemi delle sflate tradizionali. Fare qualcosa di più emozionale e più vicina alle
persone, magari facendo sflate più raccolte ma che non creino distanza tra lo spettatore e lo
spettacolo.
Quanto tempo ci hai messo a creare ed immaginarti questo?
E’ stato tutto parte di un percorso. Il video lo abbiamo girato a Milano tre giorni prima della
sflata. La collezione non è mai pronta tanto tempo prima. Quindi lo abbiamo fatto al volo e poi lo
hanno montato subito e noi intanto siamo andati a Parigi ad allestire e due giorni prima (della
sfilata, ndr) è arrivato il video.
Una combinazione professionale vincente?
Si, abbiamo lavorato con un team molto familiare e ristretto. I miei collaboratori stanno con me
dalla prima stagione e gestiscono tutto: lo show-room, l’ufficio stampa e poi lavoriamo con
collaboratori per vari eventi e spettacoli tipo hair stylist e make-up artists che sono sempre quelli.
Ci conosciamo, lavoriamo bene ed è più facile. A me poi piace essere parte di tutto. Non vado da
un’agenzia e chiedo loro di organizzare la sflata con un budget a disposizione e via dicendo. Io
voglio vedere perché non mi piace quando le cose che mi riguardano sono gestite da altri che
magari fanno una coreografia o un allestimento che non mi rappresenta. Mi piace sporcarmi le
mani dall’inizio alla fine. Anche per le sflate, i look-book e simili non lavoro con uno stylist, faccio
tutto da solo. E’ più forte di me.
Da buon tedesco, sei per il controllo..
(Ride) Può essere. Ma penso sia anche perché ci metto così tanta passione che voglio presentare i
miei lavori come dico io.
Cosa vuol dire per te “provocazione”?
Provocazione è una parola un po’ scontata. Se metti dei modelli nudi in passerella ad esempio o
fai uno statement politico fai qualcosa che può risultare “provocatorio” ma anche un po’ scontato,
alla Rick Owens … Per me provocazione è un qualcosa di più sottile. A me piace spingere e andare
oltre. Esprimermi un po’ di più, non rispettare magari alcuni limiti. Però sono gli altri che leggono
in questo la provocazione. Per me è normale fare quello che faccio perché io sono così, ma ripeto,
a volte è la gente a leggere le provocazioni in un mia scelta piuttosto che in un’altra, quando
magari io l’ho fatto solo perché mi piaceva e mi rispecchiava, senza l’idea di dover provocare o
attrarre l’attenzione.
Quindi non sei provocatorio
No, il mio è più uno stile di vita. Poi molto è anche dettato dal contesto: quello che è provocatorio
nell’opinione della gente di un determinato luogo non lo è altrove. Dipende dall’apertura di una
società.
A proposito di contesto, ho letto che stai pensando di lasciare Milano. E’ vero?
Diciamo che per stile e lavoro sono più vicino a Parigi. Mi manca purtroppo anche un po’ quel
giro. I buyer di un certo tipo non vengono a Milano. Quelli che vengono in Italia cercano uno stile
differente rispetto al mio. In effetti io non mi identifico nello stle italiano che per me è più
rappresentato da Versace, D&G, Armani, un’altra cosa rispetto a ciò che invece è il mio taglio. Mi
sento un po’ da solo e noto che c’è poca ricerca di cose simili a quelle che faccio io.
Parigi è una piazza più idonea?
Si, non come cliente finale ma come buyers sicuramente. Tanti americani e tanti asiatici che non
vengono qua, vanno più a Parigi che a Milano.
E perché?
Parigi è più raccolta. Tutto accade nel Marais. In un quartiere molto familiare. Tanti organizzano
aperitivi negli show-room e la sera passeggi e vai dove capiti. Questo è bello ed è come era tempo
fa a Milano. Io ho scelto di essere a Milano e ho scelto l’Italia per la produzione. Anche tanti
francesi hanno i produttori qui. Però Milano è diventata molto autoreferenziale. Tutti vogliono
primeggiare su tutti. Tutti incazzati, nessuno che si diverta più… Tuttavia, con quello che è
successo a Parigi l’anno scorso la situazione si è complicata. A Febbraio tanti clienti sono
mancati..staremo a vedere.